Negli anni ho scalato molte montagne. Spesso io e i miei amici valutavamo la possibile conquista di una nuova vetta studiando la montagna da lontano e decidendo se eravamo all'altezza della scalata.
Tuttavia, finché la guardavamo da lontano, era solo una montagna in lontananza e noi eravamo solo dei sognatori. Forse ci sentivamo vicini alla natura o forse eravamo orgogliosi delle nostre conquiste passate mentre contemplavamo quelle scalate. Ma solo dopo aver effettivamente raggiunto la vetta potevamo godere della sensazione di essere un tutt'uno con la montagna e in armonia con tutto ciò che era davanti ai nostri occhi.
Non è forse in questo stesso modo che molte persone considerano Dio, ovvero una divinità magnifica ma lontana, che «veglia su di noi» come se ci trovassimo su un piano inferiore?
Con questo non voglio banalizzare il concetto di Dio di chicchessia. Dare un senso a qualcosa che i nostri sensi fisici non riescono a percepire, per non parlare del comprenderlo, è una questione aperta da secoli. Eppure, nella storia i tentativi di affrontare tale questione raramente sono andati oltre ciò che l'uomo stesso può vedere: un universo fisico che, nella migliore delle ipotesi, è governato da un Dio «spirituale». Ciò rafforza il senso di separazione tra Dio e l'uomo e la necessità di «andare da» Lui per chiedere il Suo favore.
Gesù corresse questo concetto erroneo con la sua straordinaria affermazione: «Io e il Padre siamo uno» (Giovanni 10:30). In queste parole non c'è alcun accenno ad una separazione. Esse suggeriscono un'unità che respinge qualsiasi idea di distanza. Infatti, la consapevolezza di unità elimina completamente la distanza. Parla solo dell'unità di cuore, anima e mente, persino di visione, con Dio. Crea una prospettiva completamente diversa, non quella dell'uomo che pensa a Dio, ma quella dell'uomo che pensa come Dio; non quella dell'uomo che guarda Dio, ma quella dell'uomo che vede come Dio vede.
Gesù non disse mai di essere altro che uno con suo Padre. Eppure, non è forse proprio il senso di essere «due» che spesso caratterizza l'inizio delle nostre preghiere? A volte non ci rivolgiamo forse a Dio per implorarlo di entrare nella nostra coscienza, correggere il nostro modo di pensare errato, riorganizzare alcuni eventi materiali e dimostrarci così quanto sia ordinata la Sua creazione?
La visione umana di un Dio «lassù» può derivare in parte da quanto riportato sui profeti, i quali, quando parlavano con Dio, alzavano gli occhi al cielo, o su come fece Gesù quando resuscitò Lazzaro dai morti. Nel Vangelo di Giovanni si legge che «Gesù allora alzati in alto gli occhi, disse: Padre, ti ringrazio che mi hai esaudito» (11:41). Questo e molti altri riferimenti in tutta la Bibbia possono sembrare implicare che Dio sia altrove, non con noi o noi con Lui, e che le nostre preghiere debbano raggiungerLo per ottenere le Sue benedizioni. Ma una lettura più approfondita di questi racconti rivela una comprensione completamente diversa del gesto di «guardare in alto».
Essendo uno con il Padre, Gesù non aveva bisogno di guardare oltre se stesso per trovare Dio. Sapeva che Dio era già presente, onnipresente, per usare un termine spesso impiegato dalla fondatrice della Scienza Cristiana, Mary Baker Eddy. Ella incoraggia a «distogliere lo sguardo» dalle evidenze fisiche che i nostri sensi percepiscono, consentendo così al nostro senso spirituale di discernere la presenza di Dio proprio dove quelle evidenze sembrano essere. Essa scrive ancora: «Dovremmo distoglierci dall’ipotesi opposta secondo cui l'uomo sarebbe stato creato materialmente, e volgere lo sguardo verso il racconto spirituale della creazione, verso ciò che dovrebbe essere inciso sulla comprensione e sul cuore “con la punta di un diamante” e la penna di un angelo» (Scienza e Salute con Chiave delle Scritture, p. 521).
Che visione è questa, e che differenza fa nella nostra capacità di vivere la magnificenza della meravigliosa creazione di Dio.
A volte, quando ci troviamo ad affrontare malattie, sofferenze, problemi finanziari, disarmonie familiari, problemi relazionali, ecc., ci rendiamo conto che le nostre preghiere non riescono a farci trovare la pace che desideriamo. Ma se pensiamo a noi stessi come al di fuori o separati da Dio, e guardiamo a Lui per cercare la Sua grazia, non è forse come partire da un punto di separazione e sperare in un intervento divino nella nostra condizione terrena? Naturalmente potremmo trarre un po' di conforto dal sapere che stiamo parlando con Dio, ma non ci sarebbe una consolazione più permanente nel riconoscere che siamo uno con Dio, e assolutamente non al di fuori di Lui?
L'unità non è un diritto o un privilegio riservato solo a Gesù. È anche un nostro diritto, come afferma Gesù stesso: «Queste cose disse Gesù, poi alzò gli occhi al cielo e disse: “Padre, l’ora è venuta; ... Io ho manifestato il tuo nome agli uomini, che tu mi hai dato dal mondo: [...] Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi [...] come tu, Padre, sei in me e io in te, affinché anche loro siano uno in noi» (Giovanni 17, secondo la versione King James).
Ma cosa succede se la convinzione della separazione è così forte che ci ritroviamo a supplicare per sentire la presenza e l'influenza di Dio? Quando tutto ciò che riusciamo a fare è rivolgerci a Dio in preghiera, l'umile desiderio di rivolgerci a Lui, di rinunciare, anche in piccola parte, alla nostra fede nella materia, viene ricompensato. Ci riporta sul sentiero che ci conduce a percepire la nostra unità con il nostro Dio Padre-Madre.
Questo senso di unità ci offre una nuova prospettiva. Ci permette di vedere ciò che Dio vede e di distogliere lo sguardo dalle immagini che i sensi umani utilizzano per definire il mondo. Guardiamo oltre la maschera dell'imperfezione, della malformazione, della frattura e della mancanza che i sensi ci presentano e vediamo invece la magnificenza di Dio proprio dove sembrano trovarsi quelle immagini impressionanti. Invece di vedere una persona arrabbiata, malata o indigente, o una nazione divisa o in declino, il nostro sguardo si rivolge a Dio per vedere ciò che Gesù vedeva e ciò che il nostro senso spirituale ci mette in grado di discernere: la creazione perfetta di Dio; la Sua immagine e somiglianza, retta, integra, perfetta e forte. La nostra unità con il Padre è ciò che ci assicura che non potremo mai essere privi o separati da nulla di ciò che Dio ci dà: sicurezza, salute, bellezza, prosperità, intelligenza, pace. Questo vuol dire vedere come vede Dio, perché vediamo quello che vede Lui.
Se così non fosse, potremmo sempre sentirci come se Lo dovessimo cercare. Ci sentiremmo sempre un po' piccoli, come uno scalatore che guarda una montagna enorme, o come il salmista che cantava: «Quando considero i tuoi cieli, che sono opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai disposte, che cosa è l'uomo, perché ti ricordi di lui, e il figlio dell’uomo perché te ne prenda cura?» (Salmi 8:3, 4). Ma quando sostituiamo la nostra prospettiva basata sulla distanza con quella basata sulla condivisione della visione del nostro Creatore, la verità ci viene rivelata con gioia, come avvenne per quello stesso salmista la cui visione si elevò fino a quando poté proclamare trionfalmente: «Tu l’hai fatto regnare sulle opere delle tue mani e hai posto ogni cosa sotto i suoi piedi» (versetto 6).